Una scuola più equa o una scuola più uguale?
Una spesa che riduce gli abbandoni e la dispersione si traduce in un investimento per migliorare non solo la qualità della vita dei ragazzi (e degli insegnanti!) ma la competitività del Paese.
Fra i problemi irrisolti del nostro sistema scolastico resta ancora, nonostante i molti passi avanti, quello della dispersione e dell’uguaglianza non tanto di opportunità quanto di riuscita finale, e vorrei affrontarlo non dal punto di vista quantitativo (quanti e quali sono i ragazzi che non riescono a fruire utilmente dell’offerta formativa della scuola, perché non completano gli studi o li completano in ritardo, o scelgono percorsi inadatti), bensì riflettendo sulle condizioni per far crescere l’equità. Mi sembra opportuno precisare che non mi riferisco a una uguaglianza “distributiva”, che si limita a dare a tutti lo stesso servizio senza tenere presenti né il punto di partenza né la diversità dei bisogni, ma a una uguaglianza “proattiva”, che aiuta ciascuno a realizzare il proprio obiettivo, a partire da soglie minime fissate centralmente, che tutti devono raggiungere, pena la marginalità o addirittura l’esclusione sociale. Questa visione accetta le differenze, in quanto non parte da una visione ideologica ma da una realistica lettura della domanda di formazione, che è per sua natura fortemente articolata.
Per questo, e non solo per raggiungere i mitici “obiettivi di Lisbona”, i decisori politici dovrebbero incominciare a introdurre specifiche pratiche migliorative per far crescere l’equità, evitando affermazioni generali che lasciano il tempo che trovano: non un discorso teorico sull’uguaglianza, ma un discorso pratico che individui all’interno delle scuole forme di disuguaglianza concretamente riducibili con le risorse disponibili. Tra queste c’è da un lato il sostegno alle scuole “deboli”, che operano in situazioni difficili e con una popolazione in qualche modo disagiata (oggi spesso identificata in modo un po’ riduttivo con la presenza di ragazzi di origine straniera), ma dall’altro la valorizzazione delle scuole che hanno sperimentato soluzioni valide e sono disponibili a diffonderle. Lo studio delle organizzazioni dice che quasi sempre l’innovazione nasce da una interazione fra leader e “seguaci”, in una dimensione relazionale in cui chi ha una intuizione geniale deve poi realizzarla con l’aiuto degli altri per renderla fruttuosa, come sanno insegnanti e dirigenti di quelle scuole virtuose, e ce ne sono, che operano come vere e proprie comunità di pratica. L’idea è quella di costruire sulle spalle degli altri: il bambino alla partita ci vede meglio di suo papà, ma solo perché il papà l’ha preso in spalla, e questo esempio ai ragazzi risulta chiarissimo.
In un regime di valorizzazione dell’autonomia, pare opportuno partire dal livello micro, la scuola o la rete di scuole, con un’analisi della situazione per individuare se esistono forme di disuguaglianza (direi, a priori, che la risposta è sempre affermativa), come si manifestano e quali sono le priorità: non si migliora mai tutto e tutto insieme, ma si parte da quello che si ritiene più importante (o che si pensa possa essere risolto in tempi più brevi, o con minor impiego di risorse, o comunque selezionato in base a criteri espliciti), valutando gli esiti raggiunti prima di passare oltre. Una volta selezionata la tipologia di disuguaglianza su cui intervenire, è necessario definirla in modo articolato, metterla in relazione con le caratteristiche della scuola che interagiscono con essa, individuare degli indicatori per misurarla e infine definire il ruolo che giocano nel determinarla i fattori esterni e quelli interni, che si possono modificare in misura diversa. A questo punto è possibile determinare una strategia di progettazione educativa che deve essere supportata dal centro (lo Stato o le Regioni), che si propone di conseguire un obiettivo quantificato e per farlo individua i soggetti da coinvolgere, con i loro ruoli specifici e le azioni che ciascuno deve svolgere, non isolatamente, ma in un quadro di relazioni.
Se applichiamo a livello macro queste considerazioni, la procedura è esattamente la stessa, e cambia solo il livello: l’obiettivo resta quello di realizzare pratiche di miglioramento replicabili finalizzate a ridurre una specifica disuguaglianza, pratiche che porteranno alla riduzione del livello complessivo di disequità del sistema. Tutto questo può avvenire a due condizioni: l’avvio di un sistema integrato di formazione e valutazione che abiliti docenti e dirigenti a progettare in modo sistematico controllando in itinere i risultati raggiunti e gli adattamenti da apportare, e un finanziamento che consenta di coprire i costi dell’innovazione. Il concetto di cambiamento a costo zero è un puro ossimoro, che va sostituito dal calcolo di un rapporto costi/benefici: una spesa che riduca gli abbandoni e in generale la dispersione si traduce in un investimento per migliorare non solo la qualità della vita dei ragazzi (e degli insegnanti!) ma la competitività del Paese, e probabilmente comporterebbe esiti indiretti di riduzione del disagio giovanile e del rischio di devianza.
Luisa Ribolzi